Cultura patriarcale della Scrittura

Anna Maffei

Una lettura critica della Bibbia che parta dalla vita, dal messaggio, dalla morte e risurrezione di Gesù Cristo quale fondamento della fede cristiana può affrancarci dal patriarcalismo ancora vigente nelle chiese cristiane.

Se cultura patriarcale significa centralità dell’uomo nei racconti biblici, nella legislazione mosaica come nelle relazioni familiari e sociali, centralità che fonda gerarchie di potere nelle quali la donna è sempre sottoposta all’uomo, dobbiamo riconoscere che tale cultura patriarcale è nella Bibbia ampiamente dominante.

La domanda è se questa cultura è nella Scrittura ovunque affermata oppure, al contrario essa è invece contestata e relativizzata. Non posso che accennare alle poche ma significative metafore dell’amore misericordioso di Dio come amore di madre, o richiamare il fatto che lo Spirito, in Ebraico RUAH, proprio come la Sapienza di Dio siano in ebraico femminili nel nome e nelle loro personificazioni letterarie.

Mi limito a richiamare solo due piste: il non patriarcale relazionarsi di Gesù di Nazareth con le donne; il protagonismo femminile nelle prime comunità cristiane e le relative emergenti problematiche che questo comportava.

C’è unanimità fra gli esegeti che Gesù avesse discepole al suo seguito, donne che contro ogni consuetudine, avevano scelto di seguirlo nel suo ministero itinerante e ne ascoltavano l’insegnamento, le stesse che non l’abbandonarono dopo il suo arresto e furono perciò depositarie dei racconti relativi alla crocifissione di Gesù, al suo seppellimento e alla scoperta della tomba vuota la mattina di Pasqua.

Antiche tradizioni, poi, riservano a una o più discepole la prima apparizione di Gesù risorto e alle stesse il primo mandato a portare agli altri discepoli l’annuncio della sua risurrezione.

Questa realtà storica, insieme al primato richiamato da Gesù della comunità di fede sulla famiglia di sangue, mette radicalmente in questione l’idea gerarchica tradizionale. Stessa cosa accadeva rispetto al suo modo di vivere la messianicità (quale modello di regalità) che si esprimeva non come amore per il potere ma come potere dell’amore che si mette al servizio: «Sono in mezzo a voi come Colui che serve» (Lc 22,27).

Il suo abbassamento fino alla morte in croce presenta una gerarchia rovesciata, in cui il Figlio è espressione della identificazione di Dio stesso con l’umanità dei senza potere. E la sua risurrezione, il suo riscatto.

Questo primato dell’orizzontale della comunità sul verticale delle scalate al potere ha caratterizzato la formazione non gerarchica delle prime comunità cristiane e la piena partecipazione delle donne al movimento, che nei primi decenni fu denominato “nuova via”, come missionarie, apostole, predicatrici, profetesse pienamente incluse nel culto cristiano e nella vita delle Chiese.

Quanto avvenne in quei primi decenni rappresentò il lievito per un movimento che crebbe tantissimo proprio per la presenza riconosciuta delle donne e degli/delle schiavi/e.

Poi, man mano che le comunità si andavano stabilizzando e istituzionalizzando, l’iniziale eguaglianza venne a sbiadirsi fin quasi a cessare. Questa tendenza è già molto visibile nei testi più tardi del Nuovo Testamento.

Dunque il cammino verso la de-patriarcalizzazione delle comunità cristiane parte dal dato storico della piena partecipazione delle donne sia nel discepolato di Gesù, sia nella cristianità delle origini, ma si sostanzia nella rilettura della teologia della croce che sovverte ogni visione gerarchica della società, che afferma l’attualità delle beatitudini del sermone sul monte e il capovolgimento per il quale gli ultimi sono primi agli occhi di Dio, le oppresse non più maledette per l’oppressione subita ma benedette da Dio e da Questi innalzate.


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