Tra fede e religione

Enzo Bianchi

Se è vero che non dobbiamo salire al tempio di Gerusalemme per avere un rapporto salvifico con il Signore, se è vero che Dio è presente nelle profondità del cuore del cristiano, nell’intimo della sua coscienza, resta altrettanto vero che possiamo essere favoriti nel discernimento di questa presenza da situazioni antropologiche che noi definiamo e viviamo. La fede necessita della religione anche se la giudica e la critica e richiede che sempre sia sottoposta a discernimento. La fede ha il primato, ma la religione ha la sua ragion d’essere.

Il cristiano dunque accoglie, anzi sceglie uno spazio per ritrovarsi con i fratelli a confessare la fede (culto) e a celebrare l’eucaristia. Riconosce che uno spazio, come ad esempio una chiesa, gli consente raccoglimento, silenzio, ma sa che può incontrare il Padre anche nel segreto della propria camera, nel deserto o di fronte al mare! Nessun luogo è sacro, non ci sono luoghi più adatti di altri per chi vuole andare verso sé stesso e ascoltare la voce del Signore che parla.

Ed è così anche nel fluire del tempo. «Oggi è il tempo della salvezza! Oggi è tempo di svegliarsi dal sonno! Oggi è il giorno del Signore…» ci fa cantare la Chiesa e scheggiando le parole di Gesù e dei profeti. Quando fissiamo un tempo di conversione (la Quaresima), o un tempo in cui esercitarsi all’attesa della Parusìa (Avvento), noi non viviamo tempi sacri ma facciamo sì che il tempo sia al nostro servizio, al servizio della nostra fede che antropologicamente è vissuta nel tempo e nello spazio.

Per questo fin dalle origini della Chiesa sono apparsi alcuni riti, necessari a chi appartiene al popolo di Dio per la manifestazione, l’epifania della comunione. Il battesimo, la cena del Signore, l’imposizione delle mani sono riti che da sempre hanno accompagnato i cristiani. Senza segni, senza epifanie, senza dire l’uno all’altro la nostra fede, non è possibile per noi essere discepoli

di Gesù. Ha scritto Louis-Marie Chauvet: «La buona salute della fede cristiana è legata non a un rigetto del rito, ma a una sua gestione critica, e ciò suppone che esso sia costantemente evangelizzato. È a mio parere decisivo, a questo riguardo, ricordare che il cuore della liturgia e dei sacramenti cristiani non è il rito, bensì la parola di Dio: è sempre questa parola che in essi avviene, ma vi avviene sotto forma rituale».

Tale ritualità rischia sempre di essere ambigua, o addirittura falsa e ipocrita, come denunciavano i profeti; se non è accompagnata dalla verità e dalla concretezza della realizzazione nella vita diventa “abominio, delitto e solennità” (cf Is 1,13): liturgia grandiosa, magari faraonica, ma pure scena religiosa mondana. Sollecitudine per la liturgia sì, sollecitudine per il sacro no!


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