XXVII domenica del T.O. anno C

Ab 1,2-3;2,2-4   –   Sal 94   –   2 Tm 1,6-8.13-14   –   Lc 17,5-10

«Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe».

Si dice che il gelso abbia radici molto profonde, e che per questo motivo sia molto difficile da sradicare. Che poi un gelso si sradichi da solo, perché qualcuno glielo ordina, è senz’altro un fatto miracoloso. Potenza della fede, che riesce a fare (o a far fare) cose impossibili. Impossibili, ma anche stupide e malvagie. Il gelso non è una mangrovia, che prospera con le radici immerse in acque salate.  Far trapiantare un gelso nel mare significa farlo morire.

Ci pare evidente che questa affermazione che Gesù rivolge agli apostoli in risposta alla loro richiesta di accrescere la loro fede, se presa alla lettera, sia un’assurdità. Il senso deve essere un altro. Possiamo cercarne qualche indizio tra le immagini evocate dalle parole usate da Gesù, che si trovano in altri passi delle Scritture.

L’unità di misura della quantità di fede sembra essere un granello di senape. Torna alla mente la parabola che definisce il granello di senape come il più piccolo tra tutti i semi (Mc 4,30-32; Mt 13,31-32; Lc 13,18-19). Quel granello di senape è immagine del regno di Dio. Una volta piantato, cresce a tal punto che diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami.

Forse non è questione di quanta fede si ha, ma piuttosto in quale ottica ci si pone. Quella del potere, anche se a fin di bene (come sembrerebbe dalla richiesta degli apostoli)? Oppure l’ottica del regno di Dio? Il regno che si è fatto vicino nella persona di Gesù.

Questo gelso“. Non “quel gelso”, e neppure un gelso qualsiasi. Questo gelso, come volesse dire agli apostoli “è davanti ai vostri occhi”. C’è l’episodio in cui Gesù risponde ai Giudei: “distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” e l’evangelista chiarisce che Gesù parlava del tempio del suo corpo (Gv 2,18-21). Si potrebbe pensare che Gesù, parlando agli apostoli di questo gelso, alluda a se stesso? Lui che si è sradicato dalla Gerusalemme celeste, dalla sua condizione divina, per venire a mettere radici nel mare del male e della morte, per risanarne le acque accettando di morire sulla croce?

Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu.” (Lc 17,8). Queste le parole che un padrone rivolgerebbe ad un suo servo tornato dai campi, e non: ”Vieni subito e mettiti a tavola”, almeno nella prospettiva terrena, mondana del rapporto servo/padrone. 

Chi ha buona memoria ricorderà il vangelo di poche domeniche fa (XIX T.O. C), quando Gesù rivolge ai suoi discepoli l’invito a rimanere desti: ”Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il padrone quando torna dalle nozze…” (Lc 12,35-36). Saranno beati quei servi che il padrone che torna dalle nozze (lo sposo?)  troverà “ancora svegli […]; si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli.” (Lc 12,37). 

La contraddizione tra i due passi è evidente, le immagini delle due parabole sono le stesse (servo/padrone) ma la prospettiva è rovesciata. In una i servi sono ricompensati dal padrone perché sono rimasti in attesa del suo ritorno, ed è il padrone a servirli, nell’altra si dice che non verrà accolto con gratitudine ciò che faranno in quanto servi, cioè eseguire gli ordini ricevuti. E’ da notare che nella parabola del padrone che torna dalle nozze, per come è scritta, siamo indotti a metterci nei panni dei servi. Viceversa, nel testo della liturgia odierna, Gesù esplicitamente invita gli apostoli, e noi con loro, a metterci nei panni del padrone, per interrogarci su come ci comporteremmo al posto suo: “Chi di voi, se ha un servo …”.

Così anche voi” continua Gesù “quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: ”Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc. 17, 10). Il termine greco che viene tradotto con “inutili” è “achreioi”, letteralmente “che non servono a nulla”. Una traduzione più efficace può essere “non necessari”. Se ci si aspetta che l’obbedienza a quello che è stato ordinato, cioè, nella prospettiva dell’uditorio di fede giudaica cui si rivolge Gesù, l’osservanza scrupolosa e rigida della Legge, faccia meritare la benevolenza di Dio, si è fuori strada.

Dio non è il nostro padrone e noi non siamo i suoi servi. E’ questa la logica che Gesù demistifica: sarà lui, nell’ultima notte trascorsa con i suoi amici (Gv 15,15: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici“), a “stringersi le vesti ai fianchi” (“Prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita”, Gv 13,4) per lavar loro i piedi, in un rovesciamento totale dell’idea, radicata in tante persone religiose, del Dio padrone. L’idea del vecchio catechismo, che Dio ci ha creati per amarlo e “servirlo”.  Gesù ci pone di fronte ad una resa totale di Dio all’umanità: il gelso che si sradica dal suo terreno e va a piantarsi nel mare.

A noi è richiesto quel briciolo di fede che basta per riconoscere che abbiamo bisogno di quel Gesù, l’unico servo necessario, che si mette al nostro servizio per risanare il male, innanzitutto quello dentro di noi, e di conseguenza, attraverso di noi e di quanti lui possa illuminare, anche nel mondo. Quel mondo descritto dal profeta Abacuc come agitato da iniquità, rapina, violenza e oppressione , un quadro quanto mai attuale.  Quel briciolo di fede che ci conduca a coltivare la speranza (la “difficile speranza” ha scritto un poeta) che il granello di senape diventerà un grande albero,  che al male “è fissato un temine“, c’è “una scadenza …; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà“.

Enrica Salvato, Maristella e Marco Crisma


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