V domenica di quaresima anno C

Is 43,16-21    Sal 125    Fil 3,8-14    Gv 8,1-11

Il cosiddetto “brano dell’adultera” ci vede esposti a un rischio. Meglio: ci mette di fronte alla possibilità di fare un salto affrettato, che, ad avviso di chi scrive, ne sminuirebbe la ricchezza. Un salto, che, peraltro, non di rado potrebbe capitarci di fare di fronte alla Parola, vuoi per un certo tipo di catechesi ricevuta, vuoi per la frequentazione di omelie domenicali appiattite su questo genere letterario.

Ciò di cui parlo è il rischio di passare immediatamente a un’interpretazione moraleggiante – se non addirittura moralistica – del vangelo. Della serie: “Non bisogna giudicare gli altri”. D’altronde, non è proprio questo livello di lettura che ha fatto diventare proverbiale il “chi è senza peccato, scagli la prima pietra”?

Assumere questo atteggiamento di fronte al brano è lecito, per carità. Col rischio, però, di perderne il cuore. La chiave di volta del vangelo annunciatoci questa domenica non è una banale e generica assenza di condanna, ma ben di più: è la restituzione della propria dignità e della propria identità a una donna.

Fermarci sulla soglia moralistica del brano, sarebbe, insomma davvero un peccato! Vorrebbe dire perdersi la cosa più preziosa. È, tra l’altro, esattamente ciò che capita agli scribi e ai farisei: smascherati nella propria malizia e disarmati sapientemente dal Signore, semplicemente, se ne vanno.

Fallito il loro intento violento – più verso di lui, che verso la donna – non hanno più nulla da fare e da dire lì. Noi non dobbiamo cadere nel tranello, perché, per fortuna, l’evangelista ci fa restare fino alla fine. Anzi, direi, fino in fondo.

E al fondo del brano troviamo niente meno di chi sia Cristo per noi e di chi siamo noi per Cristo.  Per quella donna, già morta prima ancora di essere lapidata, svuotata di ogni umanità, perché ridotta a essere oggetto di contesa, pretesto di una diatriba contro di lui, Gesù decide di esserci. Non è lì per chi lo accusa, ma è lì per lei. Le ridà parola. Le ridà futuro. Le permette di rialzarsi (di risorgere) e la invia come discepola (va’: il verbo della missione). Ciò a cui assistiamo, a tutti gli effetti, è un atto di ri-Creazione; colei che era morta è tornata in vita, colei che era ormai ridotta a nulla torna a essere donna, restituita alla propria libertà. 

Credo che il regalo più grande che possiamo farci, questa domenica, sia di stare lì, accanto a una donna, che non ha nome, perché possa esserci il nostro. Concedere a noi stessi, per una volta, di non fermarci ai margini. Di non andarcene frettolosamente. Di sostare un poco ancora, nella nuda verità di quello che siamo. Certo, col carico e il peso di quello che ci rende, talvolta, odiosi a noi stessi. Con mani cariche di pietre fino a qualche istante fa, forse, oppure con le nostre infedeltà. Stare lì, con tutto ciò che crediamo ci condanni, affinché gli occhi dell’Amore ci restituiscano l’uomo o la donna che siamo davvero.

Daniele Pressi


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