Tradurre, tradire, tramandare

Rita Torti

Quello che Dio plasma con la polvere del suolo e dà il nome alle creature non è un uomo, ma l’essere umano in quanto tale, senza alcuna connotazione sessuale. È l’umanità.

Tuttavia a Messa ascoltiamo che prima fu fatto l’uomo e poi la donna; e la Messa non è un contesto comunicativo qualunque: è uno spazio fortemente performativo. Cioè, quello che si dice e si fa nella celebrazione pesa molto di più di ciò che si dice e si fa in altri luoghi in cui “si parla della Bibbia”. Chiede degli “amen” e raggiunge molte più persone.

Non solo. Questa traduzione/tradimento che rende “normale” la precedenza del maschio rispetto alla femmina (e quindi la secondità della femmina rispetto al maschio) influisce, in questa domenica, anche sul modo in cui si tende a percepire e a commentare il brano del Vangelo (Marco 10,2-16).

Ci si concentra infatti molto, di solito, su quanto Gesù dice riguardo all’indissolubilità del matrimonio («l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto»), sottolineando la bellezza del progetto originario («non sono più due, ma una sola carne»). Ma si sorvola sul fatto che nelle parole di Gesù c’è una critica radicale alla logica del dominio dell’uomo sulla donna, e che il progetto originale a cui egli rimanda non riguarda l’indissolubilità, ma l’assenza di dominio patriarcale del marito sulla moglie.

La questione è dunque quella del potere. E infatti questo dialogo con i farisei è collocato dall’evangelista fra il secondo e il terzo discorso che Gesù fa ai discepoli riguardo alla sua prossima crocifissione e morte (una fine tutt’altro che regale): tre annunci in cui ogni volta egli deve disinnescare le logiche di dominio che abitano la mente dei discepoli. È come se dicesse: guardatevi anche dal patriarcato, perché è incompatibile con il Regno.

A me, devo dire, è andata di lusso. Perché chi presiedeva la celebrazione ha detto, nell’omelia, anche questo:

«L’annuncio contenuto nel modo di Gesù di essere uomo/maschio, dissonante rispetto alla cultura patriarcale e del tutto libero da posizioni di potere non ha affatto trovato – a tutt’oggi – forma vera e piena. Ne è prova anche come non riesca a diventare di pubblico dominio l’interpretazione corretta del brano della Genesi oggi proclamato; nato per affermare la parità di maschio e femmina nel disegno di Dio e divenuto spesso tramite – perfino nella traduzione – per tramandarne la disparità.

Questa è certo una chiamata urgente per la comunità cristiana di oggi e – in essa – in particolare per noi maschi; un appello che si leva, come urlo insopportabile, ad ogni femminicidio. Così scrivevo tempo fa in alcuni miei appunti dopo l’ennesima tragica notizia: “Quel gesto di sopraffazione esprime qualcosa che riguarda il ‘maschile’, dunque che riguarda intimamente anche me, e questo ‘qualcosa’ è insopportabile. È insopportabile nel suo esito tragico, ma ben prima è insopportabile nel suo esserne – di quel gesto – il campo di coltura”. Vorrei non venir meno a questa chiamata, non dimenticarmene mai».

Ma in quante altre Messe, oggi, i discorsi sul matrimonio avranno affrontato il vulnus più diffuso e radicato nel rapporto fra uomini e donne?

In quante si sarà riflettuto sul fatto che, ingiungendo di «non separare», Gesù sta dicendo: non separate, con pensieri e gesti di dominio, quei due fianchi che per Dio sono contemporanei, pari nella diversità, messi uno di fronte all’altro e non uno sotto l’altro?

In quante si sarà sottolineato – altra telefonata, questa volta con Lucia Vantini – che non c’è un uomo che devi addormentare per dare vita a una donna, ma c’è la vita che si differenzia nel sonno, perché quello della differenza sessuale è un mistero, indisponibile al patriarcato?

Probabilmente non tantissime.

E allora torniamo all’inizio, alla traduzione/tradimento del racconto della Genesi: se nella liturgia la sostituissimo con quella corretta potremmo iniziare a tramandare qualcosa di veramente importante. Una buona notizia, questa volta.


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