Insicurezza e disagio (2)

Claude e Jacqueline Lagarde

La fede non si situa né nel linguaggio religioso, né nella Bibbia, e neppure nel manuale di catechesi, ma proprio nella comunità cristiana, quel bagno vivente, quel grembo di cui il fanciullo ha bisogno. Ma essa, confessando Gesù Cristo a partire dalla Scrittura, utilizza la Bibbia in modo strano.

Un simile uso – non certo banale – contraddice altre interpretazioni, sia pure erudite, che non riferiscono la Bibbia a Gesù Cristo. Così la rottura, e quindi l’insicurezza, son necessarie, sembrano iscritte nel fatto insuperabile che il centro di gravità della fede è la Chiesa che confessa il suo Signore, non dipende quindi dalla cultura circostante.

Il fanciullo colloca inizialmente la Bibbia, e la confessione di fede, a livello di un sapere concreto (immaginario o reale), come cultura religiosa. Egli li coglie in continuità con le altre sue conoscenze. Tale approccio normale e naturale, se non è sostituito da un nuovo tipo di comprensione, conduce spesso all’ateismo.

La comunità cristiana – e, a nome suo, l’animatore della catechesi – ha il dovere di iniziare il ragazzo alla Rivelazione, che è l’uso cristiano della Bibbia. Egli può farlo soltanto mantenendo un giusto equilibrio fra la sicurezza della preghiera comunitaria e l’insicurezza dell’indagine, necessaria e stimolatrice della ricerca.

Questo tipo di animazione, sorgente di una certa insicurezza, introduce un’importante differenza fra la pedagogia profana sperimentale, esplicativa e dimostrativa, quella della scuola, e quella catechistica. Questo mettere in questione (in ricerca) non è soltanto un metodo ma è il destino della fede; essa infatti non è un sapere compiuto, una “chiara visione”.

L’animatore della catechesi dovrà quindi far cogliere al fanciullo che la confessione di fede non è né una prova, né un “oppio del popolo”, né una sicurezza. Essa non ci dispensa dal vivere la nostra condizione mortale, ma, al contrario, ci invita a illuminarla nell’amore, nella fede e nella carità di Cristo.


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