Arrendersi a Dio

Francesco Bari

Elisabetta, Giovanni Battista. Maria, Gesù. Maternità esprimono un criterio di discernimento per riconoscere l’agire di Dio nella storia: la sterilità diventa fecondità. Queste dualità sono anticipate da altre: Sara, Isacco; Rachele, Giuseppe; Moglie di Manoach (che rabbia che non se ne dica il nome, ma se ne descrive l’azione in modo straordinario), Sansone; Anna, Samuele. 

Mi accorgo che esiste in me una graziosa forma di obbedienza alla Scrittura, una sorta di docile ascolto, serena attesa, confidente affidamento, perfino abbandono (quando non vedo altre possibilità), che mi impediscono di chiudere definitivamente, nelle circostanze della vita, la strada alla speranza, cioè a un ascolto fiducioso delle situazioni, a un’attesa, un affidamento, un abbandono, a una “resistenza/resa” (D. Bonhoeffer).

Cioè a un quieto “morire”, simbolico certo, ma anche materiale, se lo misuro nel tempo che passa, nello spazio limitato che posso occupare, nelle ristrette possibilità, mentre il corpo invecchia inesorabilmente e, così, giocosamente e gustosamente, si scioglie dentro fatti, cuori, situazioni, come in una serie di penultimi atti, per fecondarle. 

L’ultima maternità non conosce intervento umano (crederci? Non crederci? Che cos’è la fede?). L’ultimo passo del mio ritirarmi/abbandonarmi, della mia resistenza/resa, l’ultimo dono, non poserà su un piedistallo di terra. La feconderà così?

C’è nel venire un nascondersi, nell’andarsene un manifestarsi. È bello resistere, ma anche arrendersi: resistere al male, al dolore, alla morte, al torbido, alla Legge, che pure ci costituiscono intrinsecamente, e arrendersi a Dio, senza lasciare questa Terra, la storia, la vita, le relazioni necessarie, le vitali istituzioni, piene di incrostazioni, crepe, disarmonia, dolore.


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