Il racconto nella catechesi dell’infanzia

Claude e Jacqueline Lagarde

Il bambino non può comprendere in senso esistenziale il racconto biblico, come può invece fare l’adulto; ma allora la catechesi per l’infanzia è inutile?

Nel bambino, i racconti hanno l’importanza di una matrice culturale; disegnandoli, mettendoli in scena, recitandoli, parlandone, assimilandoli, pregandoli, il bambino nasce alla sua vita di cristiano. Immagina le cose e sente i rapporti umani in modo affettivo.

Prima di vivere tutto ciò, lo recita nel proprio immaginario. I racconti figurati divengono allora la radice dell’esistenza, anche se non vengono colti e vissuti nella loro dimensione esistenziale, anche se il «per noi» non è ancora possibile. “Uovo” della cultura cristiana, i racconti generano il bambino a sé stesso e alla Chiesa. Non è eliminando l’uovo che nascerà il pulcino.

Privato di tale matrice culturale, il bambino di famiglia cristiana rischia di sviluppare un buon sentimento religioso, sentimento universale, comune a tutte le religioni del mondo.

Questa emozione, reale e intensa, non si innesta sui comportamenti e sul corpo più di quanto facciano i racconti biblici stessi. Se l’affettività religiosa non riceve il supporto concreto e logico delle immagini e dei racconti, non acquista alcun supporto concreto né alcuna dimensione intellettuale.

Il fanciullo resta ciò che è: un piccolo animale molto religioso, senza cultura né struttura: scusate “l’animale”, soprattutto quando si tratta di religione, ma un’affettività religiosa non controllata rischia a volte di fare gravi danni. 

La tradizione dei Padri ci ricorda questo: essenziale nella catechesi è l’intelligenza della fede (intellectus fidei), non il sentimento religioso – che si sviluppa in modo abbastanza spontaneo se il clima spirituale è buono. 


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