XIII domenica del T.O. anno A

2Re 4,8-16 Sal 88 Rm 6,3-11 Mt 10,37-42

L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio tra le tue braccia. Fecondità inaspettata e rinviata all’anno prossimo in questa stessa stagione. Un tempo necessario perché la parola possa generare, dal momento che non è frutto di magia, ma gestazione di un concepimento frutto dell’amore.

Sì perché all’origine di quella promessa ci sta la premurosa attenzione della donna per il profeta; ciò riserva per l’uomo di Dio uno spazio che ha tutte le caratteristiche della mensa eucaristica, tabernacolo che custodisce una presenza preziosa, come quella del profeta che si ferma a mangiare in quella casa.

Ed è in forza di questo amore capace di far germogliare la vita anche nell’aridità di un deserto, che l’orizzonte immerso nel crepuscolo della sera, affretta i suoi passi per riflettere i primi raggi dell’aurora. L’anno prossimo, dice Eliseo, eco di quell’augurio scambiato ad ogni Pasqua ebraica. L’anno prossimo a Gerusalemme! 

Dolce promessa del ritorno a casa dall’esilio. Quest’anno siamo in esilio ma l’anno prossimo il nostro Dio ci consentirà di essere nuovamente a casa. Esattamente come il profeta, che nel suo pellegrinare, come fosse in esilio, trova casa in quello spazio a lui riservato dalla premura dell’illustre ospite.

E di amore parla anche Gesù nel vangelo con i toni di un linguaggio duro da accettare, che sfugge ad una immediata comprensione. Chi ama suo padre e sua madre … suo figlio o sua figlia più di me… non è degno di me, dice Gesù.

Possibile che il Signore metta in competizione amori simili? Si può rinunciare all’amore verso coloro dei quali si è carne della stessa carne e nella quale scorre lo stesso sangue? L’esperienza ci evince nel dire che è possibile, ma non in una logica competitiva tra la famiglia e Dio.

Allora forse Matteo ci spinge a scavare in profondità tra le parole di Gesù, per compiere un salto in avanti. Cosa mai avrà voluto dire con quel chi ama più di me non è degno di me? Non approfondisco questo discorso dal punto di vista esegetico e lascio il compito a chi lo fa con la competenza che io non possiedo.

Mi addentro semplicemente nei percorsi, a volti rischiosi, di una ricerca intuitiva e guardo a quel padre e madre e a quel figlio e figlia, come a ciò che mi precede e a ciò che viene dopo di me. Allora penso ad una vita che si affida non a dati acquisiti e a certezze assicurate, ma semplicemente alla presenza non facile da riconoscere di Dio che mi assicura tutta la cura, senza la quale passato e futuro si dissolvono nel nulla.

Se la cura è espressione di un Dio che mi accompagna, questo Dio non può che avere il volto dell’Abbà di Gesù. Proprio guardando a come quel Padre ha sostenuto il Figlio al quale non ha reso facile la vita, ma lo ha sostenuto, posso vivere nella presenza dello stesso amore che non cambia miracolosamente la vita, ma la custodisce.

Pertanto, anche di fronte alle avversità che la vita non mi risparmia, posso portarne il peso perché sento di essere sorretto da un amore che mi porta e mi assicura, nel mio esodo quotidiano, una stanza dove trovare riparo nel tempo della sosta.

Una stanza superiore, la stessa che Gesù ha riservato ai sui amici nel desiderio di poter mangiare con loro la Pasqua. Uno spazio nel quale so di poter essere raggiunto da una promessa che mi nutre, non nell’immediato dal quale ogni via di fuga è illusoria, ma in quell’anno prossimo che è dolce promessa del ritorno dall’esilio, e che per me assume il valore di un bicchiere d’acqua fresca, offertami per placare la sete che arde nell’arsura del deserto.

Vitorio Gnoato


Lascia un commento