IV domenica di Pasqua anno A

At 2,14.36-41     Sal 22     1Pt 2,20-25     Gv 10,1-10

Il brano tratto dal Vangelo di San Giovanni che la liturgia ci propone nella IV° Domenica di Pasqua è la parabola del buon pastore, letteralmente del pastore bello, termine che richiama la creazione dove Dio vede che ciò che ha creato è cosa bella e che l’uomo è cosa molto bella!

Questo brano segue il racconto della guarigione del cieco nato e di questo bisogna tener conto: mostra forse ciò che il cieco guarito può finalmente vedere?

Si può pensare questo cieco come all’“illuminato”, cioè al battezzato che passa dall’oscurità alla luce, che può finalmente vedere il giorno dopo la notte e che vede nell’uomo Gesù la vera immagine di Dio!

E Pietro disse loro: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo. Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani.

Allora capiamo che il processo di crescita spirituale del cieco, che siamo poi ognuno di noi, è ciò che continuamente bisogna ripercorrere per “vedere” il volto del pastore bello.

Il cieco e noi siamo nella notte non per un peccato o per una colpa dei nostri progenitori, ma per una struttura mentale che va radicalmente cambiata, Gesù viene ad illuminarci per farci capire che questo è l’errore originario che abbiamo: un’immagine falsa di Dio e di uomo che poi perseguiamo per tutta la vita e che ci rende schiavi.

Infatti Gesù ricrea il cieco dal fango, lo battezza a vita nuova e da qui dovrà partire per percorrere una strada di consapevolezza fino all’ “espulsione”, partorito a vita nuova potrà finalmente professare la sua fede: “Credo, Signore”. I farisei rimangono ciechi ed è per la loro e per le nostre cecità la parabola del pastore bello.

Certamente essi conoscono e molto più di noi la Parola di Dio e l’immagine del pastore è per loro ricca di significato, ma è veramente compresa?

“Tu, pastore d’Israele, ascolta, Tu che guidi Giuseppe, come un gregge” (Sal.79,2)

Pastore è il re Davide secondo la profezia di Ezechiele: “Susciterò per loro un pastore che le pascerà: il mio servo Davide “(Ez.34,23), lo Spirito di Dio che è sempre con lui lo fa pregare, cantare, ma soprattutto ascoltare “gli orecchi mi hai aperto” (Sal.40,7) o, come traduce Erri De Luca, “hai scavato in me” orecchi come pozzi in cui possono salire e scendere domande e risposte.

Allora l’ascolto è mezzo per riuscire a sentire la voce del pastore, il suo richiamo e non confonderlo con altre voci.

Un altro pastore, Abramo, riesce ad ascoltare la voce di Dio che lo invita ad uscire, ad essere “espulso”, a rinascere con una “terra nuova”, a vedere “cieli nuovi” pieni di stelle, a credere nella promessa di eternità.

Anche Mosè, che è un pastore salariato di pecore non sue, ascolta la voce di Dio che lo fa “uscire” dal proprio egitto interiore prima di farlo diventare pastore del suo popolo nel cammino del deserto verso la libertà ed anche al profeta Amos, allevatore di pecore, Dio mostra cosa veramente è essere pastore: “Così dice il Signore: come il pastore strappa dalla bocca del leone due zampe o il lobo di un orecchio, così scamperanno i figli d’Israele” (Amos3, 12).

La figura del pastore bello è così preannunciata in tutta la storia biblica a partire dal primo momento, ed è proprio l’immagine del primo pastore quella che più fa trasparire il volto di Gesù, è Abele, il soffio, che non parla come l’agnello muto condotto al macello, non si difende e non ha scampo, “i suoi sangui”, la parola ebraica è al plurale, sono il simbolo di tutto il sangue innocente che viene sparso fino ad includere addirittura quello del Figlio di Dio.

La Parola ha quindi preparato i nostri occhi alla luce, ha scavato pozzi nei nostri cuori e possiamo ora vedere con chiarezza che i recinti che chiamiamo sacri sono regole e leggi che niente hanno a che fare con la misericordia di Dio, ma sono promulgate per escludere ed imprigionare, le porte sono accessi che vanno in un’unica direzione, che si chiudono dietro le pecore per condurle al macello, chi dovrebbe essere pastore è ladro e brigante, chi dovrebbe pascere sfrutta e sacrifica.

Solo in Gesù ogni recinto si apre, ogni legge diventa imperativo d’amore, ogni porta ridiventa passaggio verso la libertà, il pastore bello apre e libera le pecore. E’ un esodo, un uscire dalla schiavitù di una religiosità che incarcera verso la libertà, è un esodo anche e soprattutto per il pastore che lo porta a farsi pecora, agnello sacrificale. Solo così, scambiando la nostra morte con la sua vita noi possiamo “uscire”, essere “espulsi”, verbo del parto, cioè partoriti alla luce.

Certo è traumatico per chi nasce e per chi partorisce, Gesù, Io sono, Dio stesso, diviene la porta, la porta delle pecore, la porta da dove passano gli agnelli del sacrificio, dove si ammassano gli esclusi e gli emarginati e qui avviene “il mirabile scambio” (S. Agostino).

Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime.

Si entra passando attraverso il Cristo per uscire rigenerati, trovare il pascolo che è Lui stesso, il suo corpo e il suo sangue che danno la vita e la danno eterna in un continuo inizio, la Parola ci guida a riconoscere la voce del pastore bello che sta alla porta e bussa , forse quel portiere di cui parla la parabola, siamo noi, la porta si apre dal di dentro, noi abbiamo la possibilità e la libertà di aprirci a chi è bello e buono, a chi viene a toglierci dalla valle oscura che ci abita, dai briganti interiori che ci opprimono, per condurci “ a pascoli erbosi e ad acque tranquille”.

Graziella Tessarolo


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