XXVI domenica del T.O. anno C

Am 6,1.4-7   –   Sal 145   –   1Tm 6,11-16   –   Lc 16,19-31

Ma che cosa c’è di male nell’essere ricchi? Che cosa c’è di negativo nella condizione degli “spensierati di Sion…distesi su letti d’avorio” che “…mangiano gli agnelli del gregge…canterellano al suono dell’arpa…bevono il vino in larghe coppe…si ungono con gli unguenti più raffinati” (Amos, 6,  1a.4-7)?

Che cosa fa di male il ricco della parabola di Luca, che vestiva lussuosamente e ogni giorno si dava a lauti banchetti? La condanna del denaro, “sterco del diavolo”, è presente oltre che nella Bibbia in molte religioni,  letterature, filosofie, culture, fin dalla notte dei tempi. Rischia però di suonare come luogo comune, con un’intonazione moralistica e retorica, che nessuno contesterebbe ma che viene svuotata di sostanza. Il problema non è – ovviamente – la ricchezza, è ipocrita affermarlo, bensì la relazione che si instaura con essa. Ancora una volta il problema non è il “di fuori” ma il “di dentro”.

Amos rimprovera agli Israeliti della sua epoca il fatto di essere “spensierati” (il verbo del testo greco significa ”tenere a vile, disprezzare, non curarsi”). Riguardo a che cosa? Alla rovina di Giuseppe, cioè di Israele, all’esilio che incombe su di loro. Ma nei capitoli precedenti le accuse di Amos nei confronti di questi “spensierati” sono di schiacciare l’indigente, di calpestare la testa dei poveri e di far deviare il cammino dei miseri.

Se manca la giustizia, le pratiche religiose non possono essere gradite a Dio. Infatti “Io detesto, respingo le vostre feste solenni  e non gradisco le vostre riunioni sacre; anche se voi mi offrite olocausti, io non gradisco le vostre offerte, e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo. Lontano da me il frastuono dei vostri canti: il suono delle vostre arpe non posso sentirlo! Piuttosto come le acque scorra il diritto e la giustizia come un torrente perenne.” (Am 5,21-24). In questo senso, la dicotomia tra pratica religiosa da un lato, e dall’altro noncuranza per chi è nel bisogno, tendenza a farsi largo nella vita sgomitando può essere un rischio che riguarda anche noi.

Il ricco che si dà a lauti banchetti non si accorge di Lazzaro che giace affamato e malato alla sua porta, proprio non lo vede (meglio: non lo vuole vedere, perché in realtà ne conosce anche il nome, come dimostra il seguito del racconto). Pone tra lui e il povero una distanza che non sa / non vuole accorciare, eliminare, facendosi prossimo di Lazzaro, il cui nome, comunque, fa risuonare una grande speranza, “Dio ha soccorso”.

La conclusione della parabola sembra rimettere tutto a posto, secondo un criterio di giustizia molto terreno per cui se uno si è dato alla bella vita in terra, è giusto che patisca nel “mondo di là”, chi invece ha tribolato di qua troverà di là consolazione. Non preoccuparti se la tua vita è un inferno, anzi, sii contento: più soffri di qua più sarai beato di là. Questa logica compensativa, però, stride ad esempio con quella del padrone della vigna che dà lo stesso compenso a tutti gli operai anche se non hanno lavorato lo stesso numero di ore (Mt 20,1-16).

Più interessante è notare come nella parabola le posizioni spaziali iniziali, Lazzaro che giace alla porta del ricco, in una condizione di inferiorità anche fisica, si capovolgano nel mondo di là: chi era sopra si trova sotto e viceversa . “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili”.

Non va inoltre dimenticato che la parabola di Gesù ha dei precisi destinatari, i farisei, che, come si dice qualche versetto prima, “erano attaccati al denaro…e si facevano beffe di lui” (Lc 16,14). E’ la loro ipocrisia, la loro religiosità svuotata di umanità, disincarnata, che Gesù identifica con il ricco, usando proprio le loro categorie teologiche (il “seno di Abramo”, gli “Inferi” che non sono l’Inferno ma la parte sotterranea della terra).

La distanza che il ricco ha voluto porre tra sé e Lazzaro in terra diventa “abisso” nel mondo di là, un abisso che non può essere attraversato, come gli insegna il padre Abramo: ”coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi.” Da una parte il Bene, dall’altra il Male, alto contro basso.

Tutto torna a posto. Se non che Qualcuno che “si è fatto peccato” (2Cor 5,21) è disceso negli Inferi per noi, che siamo Lazzaro o che siamo il ricco “epulone”. O che entrambi convivano in noi, in quel “guazzabuglio del cuore umano”. Colmando quell’abisso.

Lazzaro era bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe”. Queste immagini possono far ricordare le briciole che cadono da una tavola e i cagnolini nel dialogo tra Gesù e una donna cananea (Mt 15,21-28). Forse la fame di Lazzaro potrebbe non aver a che fare esclusivamente con la sua necessità di carboidrati, lipidi e proteine. E le piaghe che lo affliggono potrebbero essere di natura non solo fisica.

E’ vero che “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio“.  C’è una mensa riccamente imbandita di cibi succulenti a cui Dio ci invita (Is 55,1-3). La mensa della Parola. E invece i farisei avevano ridotto tutto quel ben di Dio a una serie di norme, prescrizioni e divieti che si vantavano di osservare scrupolosamente. Una religione arida, niente che possa sfamare o funzionare da ricostituente per chi è piagato (piegato?). E’ un rischio che possiamo correre anche noi? Viceversa, se accogliamo l’invito di prender parte a quella mensa e vi troviamo davvero quanto promesso, non siamo forse tenuti a condividerne le prelibatezze?

Enrica Salvato, Maristella e Marco Crisma


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