Papa Francesco e i carcerati

Marco Pozza

Francesco è il Papa che con i suoi gesti ama rendere attori le persone che si trova davanti. Temo che il buon-Dio, quand’era a spasso per la Galilea, facesse l’identica cosa: l’uomo, qualsiasi uomo, protagonista della sua storia con Dio.
Apparso alla finestra in una sera di primavera, il suo esordio è stato per me rapimento: Buona-sera! Non era politicamente-corretto come saluto-di-Papa: era profondamente umano, però. Mi colpì, mi convinse, fu motivo di un’immediata simpatia per quell’uomo arrivato dai bordi della terra, a testimoniarmi il bordo del Mistero.

In galera – il nostro punto d’osservazione sul mondo – pronunciare il suo nome è aprire le porte alla stravaganza di Dio. Le sue accelerazioni o sono carezze di madre, o sono annunci di guerra. Indifferenti, mai.
Nelle prigioni abitano uomini che hanno fatto guerra, provocato disastri, messo in allarme il mondo. Gente attrezzata a tutto.

Quasi-tutto: «Io ho una certezza dogmatica: Dio è nella vita di ogni persona, Dio è nella vita di ciascuno. Anche se la vita è stata un disastro, se è distrutta dai vizi, dalla droga, da qualunque altra cosa, Dio è nella sua vita. Bisogna fidarsi di Dio» disse Francesco in quell’intervista a padre Antonio. Fu un vero e proprio agguato, il colpo di fulmine che non t’aspettavi. Dunque, hanno capito che il Papa li amava per com’erano: rotti, feriti, slabbrati. Fatti-così.

È sbocciata a bordo strada, come un fiore selvatico, la storia d’affetto tra Francesco e i nostri carcerati. Una sera, la domenica del Giubileo dei Carcerati, li ha invitati a casa: la porta aperta è sempre quella più sicura. Li ho visti lacrimare, faticare a reggersi in piedi, pregare, sorridere. Abbracciarsi-forte: Gesù, in Galilea, iniziò così la storia più ambiziosa. Da quel giorno nulla è più stato com’era prima. Per loro, anche per me: quello sguardo-di-grazia sulla mia miseria è stato lo sguardo di un Dio-affamato del mio riscatto.

A luglio, un mattina, uno di loro mi fissa: “Quando sei così, stai organizzando qualcosa”. Sorrido, gli confido il mio lavoro sul Padre-nostro, gli svelo qualche storia. Lui – è la sfacciataggine bella del povero – non ha dubbi: “Se glielo racconti al Papa, parteciperà anche lui”. Rido: “Esagerato!” Scordavo che anche Cristo esagerava: non conosceva amore senza eccessi.

Finita la messa, scrivo la lettera: la Invio. La domenica del Giubileo dei Carcerati, li ha invitati a casa: la porta aperta è sempre quella più sicura. Li ho visti lacrimare, faticare a reggersi in piedi, pregare, sorridere. Abbracciarsi-forte: Gesù, in Galilea, iniziò così la storia più ambiziosa. Da quel giorno nulla è più stato com’era prima. Per loro, anche per me: quello sguardo-di-grazia sulla mia miseria è stato lo sguardo di un Dio-affamato del mio riscatto


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